Esperienze di tirocinio nell’ITALIANO LS – L2: Elena Cioce

Ecco una nuova testimonianza, ci arriva da Elena Cioce, laureata in Lingue e Culture per la Comunicazione Internazionale presso l’Università degli Studi della Tuscia (Viterbo).iic-colore-dublino

Elena ha svolto di recente un periodo di tirocinio presso l’Istituto Italiano di Cultura di Dublino – Irlanda.

  1. Qual è l’interesse verso la lingua e la cultura italiana nel tuo paese o nel paese dove vivi e lavori?

In Irlanda c’è un forte interesse per la lingua italiana e molti irlandesi, non solo residenti a Dublino, vanno all’Istituto Italiano di Cultura per seguire le lezioni, fare conversazione o solamente essere immersi in un ambiente italiano nel cuore di Dublino, magari leggendo un buon libro e bevendo un caffè!

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  1. Per quali motivi gli studenti sono interessati a studiare l’italiano?

I miti della “Bella Italia” e della Dolce Vita sono molto comuni e molti vengono nel nostro paese per godersi le vacanze estive ed un po’ di sole. Alcuni studenti sono motivati da ragioni personali (i figli si sono trasferiti in Italia; hanno nipoti italiani; amano la cultura italiana e vogliono apprendere il più possibile del nostro mondo), altri vogliono semplicemente riprendere una lingua studiata approssimativamente magari in gioventù.

  1. Quali sono le difficoltà maggiori che incontrano gli studenti durante lo studio?

L’italiano è una lingua piuttosto difficile: forse la difficoltà maggiore è data dall’avere pochi luoghi in cui praticare la lingua al di fuori dell’IIC (nonostante i molteplici eventi che l’Istituto organizza). Spesso tra gli studenti nascono buone amicizie ed alcuni di loro si incontrano anche fuori dell’orario delle lezioni per parlare in italiano tra loro e migliorare le loro capacità di fare conversazione.

Gli ostacoli maggiori sono le doppie ed i tempi verbali.

 

  1. Che cosa credi che manchi per una maggiore diffusione dello studio della lingua italiana?

Potrebbe essere utile un ampliamento dello studio dell’italiano nelle scuole (primarie e secondarie) ed un incremento dei prodotti italiani nel mercato irlandese così da potenziare il commercio tra i due paesi ed accrescere l’interesse per l’Italia.

Il grande linguista Katerin Katerinov morto a Perugia

Katerin Katerinov, uno tra i più importanti studiosi della lingua italiana, è morto a Perugia, la città in cui viveva da molti anni e nella cui Università per Stranieri ha insegnato a lungo, formando sia studenti sia docenti.katerinov

Il suo libro La lingua italiana per stranieri, conosciuto come Manuale rosso di Katerinov, scritto insieme a Maria Clotilde Boriosi e pubblicato da Guerra edizioni, è stato per anni una pietra miliare nello studio della lingua italiana per moltissimi studenti stranieri.

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Katerin Katerinov era nato nel 1938 a Sofia in Bulgaria.

Presso l’Università Clemente d’Ocrida aveva studiato  Filologia romanza, conseguendo nel 1963  la laurea in lettere italiane.

Iniziò subito a insegnare Lingua italiana presso la stessa Università e poi, all’interno del programma di scambi culturali tra Italia e Bulgaria, divenne Lettore di Lingua bulgara presso l’Università di Roma La Sapienza – Cattedra di Filologia, incarico che svolse dal 1964 al 1967. Nello stesso triennio tenne lezioni ed esercitazioni di grammatica storica delle lingue romanze.

Nel 1969 cominciò a insegnare Lingua russa presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Perugia e nel 1972 conseguì la sua seconda laurea in Lettere presso lo stesso Ateneo.

Passò quindi all’Università per Stranieri di Perugia dove dapprima ricoprì la carica di docente di Grammatica e Sintassi e poi, dal 1980, di Lingua italiana per stranieri e quindi Linguistica.katerin2

Katerinov ha insegnato presso l’Università per Stranieri di Perugia fino al 2008, quando si è ritirato in pensione.

Nello stesso anno, l’Università Konstantin Filosof di Nitra (Slovacchia) gli ha conferito la laurea honoris causa «per i suoi contributi alla metodologia dell’insegnamento delle lingue straniere; allo sviluppo della glottodidamatica (termine coniato dallo stesso Katerin Katerinov), ossia l’informatica applicata alla didattica linguistica; alla diffusione della lingua e della cultura italiana nel mondo e alla diffusione delle idee dei S.S. Cirillo e Metodio».katerin

 

La sua attività scientifica era comunque continuata anche dopo il pensionamento con conferenze e incontri in varie Università europee.

tratto da: http://blog.graphe.it

 

 

 

 

Vi proponiamo qui di seguito un abstract pubblicato nel sito del MAE www.estericult.it in PARLARE ITALIANO NEL MONDO e nel Corriere canadese (http://corriere.com/viewsearch.php )

“L’insegnamento della lingua e della cultura italiana nell’era digitale e della globalizzazione” di Katerin Katerinov

Lingua e cultura costituiscono un binomio inscindibile. Accanto alla cultura “alta” va mediata la cultura socioantropologicamente intesa, che è espressione di ciò che un popolo fa e pensa. Ci si commuove di fronte a reperti archeologici che ci permettono di comprendere la cultura del popolo che ha realizzato quei manufatti, ma spesso non si pensa che, oltre alla cultura “alta”, a connotare la cultura di un popolo in senso lato sono i suoi artefatti e prodotti industriali. De Gaulle diceva che se da un paese importava carne, nello stesso paese esportava la lingua, perché dove arriva una lingua arrivano anche i gusti del popolo che la parla, seguiti poi dai suoi prodotti industriali.

Gli insegnanti di italiano come L2  devono essere consapevoli  dei rischi che corrono nella pratica didattica: accogliere in ritardo le nuove metodologie  e trascurare di inglobare in queste alcuni punti ancora validi che la “tradizione” ci offre. E’ infatti impossibile che tutto ciò che viene considerato “superato” sia completamente da rigettare.

L’italiano dispone di buone grammatiche teorico–descrittive, ma è l’unica lingua di grande diffusione a non avere ancora una grammatica referenziale. Solo da pochi anni in ambito scolastico si cerca di recuperare lo studio sistematico della grammatica e della sintassi italiana, quasi abbandonato alla fine degli anni Sessanta.

Quanto agli studenti, non possiamo limitarci a proporre / imporre loro i nostri dotti discorsi, ma dobbiamo costruire il percorso didattico partendo dai loro bisogni reali, tenendo cioè presente ciò che dovranno saper fare con l’italiano una volta ultimati gli studi. In tal modo, da ultima ruota del carro, lo studente diventa  la figura centrale del processo didattico.

Inoltre, con gli studenti di oggi noi ci troviamo di fronte al più grosso scarto generazionale nella storia dell’umanità: i nostri allievi, nati negli anni Ottanta e Novanta o dopo,  sono “nativi digitali” e  apprendono in maniera completamente diversa le materie che noi, anche se “immigranti digitali”, continuiamo a insegnare loro con i metodi tradizionali.

 

Il traguardo record di Andrea Camilleri: 100 libri

Cento libri, nove più dei suoi anni. Andrea Camilleri ha raggiunto il traguardo del 100° volume pubblicato pochi mesi fa, con L’altro capo del filo, il nuovo giallo in uscita dall’Editore Sellerio.Camilleri

 

Stavolta il commissario Montalbano è alle prese con gli sbarchi di migranti e vari cadaveri. E anche con gli acciacchi della vecchiaia contro la quale si sfoga nel fresco della sera mentre la sua Livia porge le pantofole per i piedi infreddoliti.

TV: RITORNA IL COMMISSARIO MONTALBANO / SPECIALE

 

 

 

 

La fertile carriera dello scrittore siciliano cominciò nel ’59 con un titolo che non faceva presagire grande successo: Storia dei teatri stabili in Italia 1898-1918. Camilleri allora amava il teatro, faceva il regista, lavorava in Rai. E la carriera letteraria è stata marginale per quasi trent’anni. Poi l’intuizione del personaggio di Montalbano. Un successo che ha sedotto il mondo con la nascita dell’idioma italo-siciliano e dell’immaginaria (ormai realissima) cittadina di Vigàta. E una produzione velocissima: anche cinque-sei titoli l’anno.camilleri 6

Camilleri, 91 anni, ha nei cassetti i dattiloscritti già pronti del 105° e 106° romanzo. Fuma tantissimo, coccola i nipoti, s’informa e s’indigna sul mondo che non va come dovrebbe andare. E continua a lavorare nonostante il forte calo della vista: ora “scrive”dettando i suoi libri ad una fedele assistente.

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Che cos’è la vecchiaia?

«Un’età in cui la macchina umana ha bisogno di frequenti tagliandi. Non puoi più permetterti le tante cose della gioventù, come camminare o mangiare bene, che mi piacevano assai. Ne devi prendere atto e archiviare la pratica. Ma se riesci a mantenere il cervello in funzione, la vecchiaia non esiste. Anzi, è una ricchezza».

Ricorda il Camilleri del primo libro sui teatri?

«Era un Camilleri così preso dal teatro che pensava di studiare e scrivere solo saggi di teatro. Manco si sognava i romanzi né tale successo».

E com’è avvenuta la metamorfosi?

«Con la malattia di papà. Mentre passavo le notti con lui, cominciai a raccontargli il romanzo che mi ronzava in testa, di cui non esisteva un rigo. Mi spinse a scrivere, “come me lo stai raccontando”. L’anno dopo che morì uscì “Il corso delle cose” per adempiere alla promessa che gli avevo fatto».

L’emoziona il traguardo del centesimo libro?

«Sì, e mi guardo con stupore. Credevo di essere uno scrittore dal respiro corto. “Ho il fiato per i cento metri” dicevo a Elvira Sellerio che premeva perché le dessi altri manoscritti dopo i primi due Montalbano. Lei mi smentiva, “provaci, vedrai che puoi fare la maratona”».  camilleri 5

Tra le 100 «creature» quale ama di più?

«Il re di Girgenti. Perché ha rappresentato tante sfide con me stesso. Cinque anni m’ha preso. Ho dovuto perfezionare l’insieme della mia scrittura che fino a quel momento era stata un lavoro in corso di maturazione. La storia del romanzo è magnifica: un contadino che si fece re, capitolò, fu cancellato dalla Storia, ricordato solo da poche righe che lo ricordavano feroce come una bestia».

«Scrivere» dettando è difficile?

«Ho dovuto imparare. Quando uno scrive con le proprie mani, basta alzare lo sguardo per recuperare quel che si è scritto. Questo, non vedendoci più, ti è negato. Ed è impossibile mantenere la memoria di quanto prodotto cinque minuti innanzi. Così mi sono creato un piccolo trucco, ricorrendo all’antico mestiere di regista teatrale. Immagino la pagina come un boccascena, e me come spettatore. So che Montalbano si trova seduto lì, Catarella è a destra, l’altro in piedi… Il quadro visivo mi aiuta a ricordare il dialogo. Poi naturalmente Valentina rilegge, 5-6 volte di seguito, per capire se tutto collima. Comunque sono sempre stato “orale”. Anche quando i libri me li facevo da me, lavoravo muovendo le labbra come se stessi raccontando. Ogni pagina me la leggevo a voce alta. Mi accorgevo di inghippi, errori, caduta del ritmo, solo sentendomi».

C’è qualcosa di bello nei novant’anni?

«Guardare le cose con distacco. Ti appassioni, certo, ma tra te e la passione è come se ci fosse un velo sottilissimo. Continuo ad arrabbiarmi, ma brechtianamente. Quasi straniandomi da me stesso».

Racconti-di-Montalbano-Andrea-CamilleriCosa la fa arrabbiare di più? 

«L’Italia. L’Europa. Il mondo. Le notizie che mi investono brutalmente. Appartengo a quella generazione che uscì dalla guerra con una meta comune, anche se ci combattevamo ferocemente tra avversi partiti: rifare l’Italia. A 90 anni, mi mette tristezza consegnare un Paese così a miei nipoti. Me ne faccio quasi una colpa, come se avessi dilapidato una fortuna. Avrei dovuto impegnarmi di più. Certo non avrei risolto i problemi. Ma la mia coscienza rimorderebbe di meno».

In età avanzata molti scrittori hanno cominciato a porsi seriamente domande sull’aldilà e su dio. Anche lei?

«No. Perché sono un non credente da quando ho l’età della ragione. L’ateismo è saldo. Adesso, per lo meno. Ma chissà cosa succederà in punto di morte. La paura può essere cattiva consigliera. O buona. A seconda dei punti di vista».

Neppure con la morte fa i conti?

«Ritengo la morte un atto dovuto. Come John Gielgud. Al figlio che in un film chiede: “Papà hai paura della morte?”, lui risponde: “No, ma è disdicevole”».

L’incontro più bello della vita?

«È quella signora uscita poco fa domandandomi se avevo bisogno di qualcosa. Sono 59 anni che mia moglie me lo domanda. Se sono quello che sono, lo devo anche e soprattutto al suo infinito affetto, amore, pazienza nei miei riguardi». Andrea-Camilleri-1

Che cosa significa perdere la vista?

«La mia pronipote, che è nata due anni e mezzo fa, la distinguo a malapena. E so che morirò senza aver mai visto il suo vero volto. È un dolore. Oggi mi è arrivato il centesimo libro, mi hanno raccontato la copertina. Me la sono immaginata, ma è brutto non poterla vedere. Come mi dispiace non poter rivedere i colori dei pittori che amavo».

Quali sono le immagini più belle che conserva nella memoria?

«Me bambino nella campagna di mio nonno. Più invecchio e più ricordo i dettagli di quella grande casa. Immagini luminosissime. Il colore dell’erba. La vivezza del cielo. E poi il mare. Le cose brutte, invece, sono opache. Per esempio sono riuscito a cancellare quasi la guerra, i bombardamenti. Come se il cervello avesse operato una selezione, conservando solo la bellezza».

Qual è la sua idea di felicità?

«La felicità pura è quella che non mi capita più e mi capitava anni fa. Aprire la finestra di prima mattina, inspirare, guardare il cielo, e sentirsi felice. Non era la concretezza di qualcosa. Ma l’essere vivo in quell’istante».

Montalbano le è simpatico?

«Lo amo e lo odio. Gli devo quasi tutto. Mi è servito da apripista per gli altri romanzi. Però è invadente, pretenzioso, antipatico. Se finisco in un inghippo, me lo vedo arrivare che dice “farei così”».

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Qual è il suo personaggio preferito?

«Svetta su tutti un personaggio femminile. Donna Eleonora, protagonista della “Rivoluzione della luna”. Mi sono imbattuto per caso in lei che nel ’600 fu viceré di Sicilia per un mese. Fece cose straordinarie. Difese con fermezza le leggi e la giustizia in un’epoca in cui regnava la sopraffazione».

In quest’ultimo romanzo c’è il tema dei migranti. Come lo stiamo affrontando?

«Tre anni fa fui ospite di un asilo romano, composto per metà da bambini italiani e l’altra metà da non italiani, di 18 paesi diversi. Giocavano insieme, ridevano, litigavano, si menavano. Ma alla fine dividevano le merendine. L’Europa deve capire che bisogna dividere le merendine. I muri sono sciocchi e inutili».

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