Il professor Tullio De Mauro, uno dei più importanti linguisti italiani, ha recentemente ricevuto la cittadinanza onoraria dal Comune di Santarcangelo di Romagna.
Il Professor De Mauro ha diretto il Dipartimento di Scienze del Linguaggio nella Facoltà di Filosofia e successivamente il Dipartimento di Studi Filologici Linguistici e Letterari nella Facoltà di Scienze Umanistiche dell’Università La Sapienza di Roma. Nel 1973 è stato tra i protagonisti del “Seminario popolare su Tonino Guerra e la poesia dialettale romagnola”.
Secondo il Professor De Mauro la lingua italiana, non sta così male. Messi male sono molti, troppi italiani che quella lingua parlano ormai correntemente, ma incontrano grandi difficoltà a comprendere un testo scritto o a risolvere un calcolo. Insomma, a orientarsi nel mondo d’oggi. È l’immagine di un paese a due facce: l’italiano è diventato ora la lingua di quasi tutti, senza che ciò abbia però provocato la morte dei dialetti. Se il 90 per cento di noi parla una lingua comune (ancora nel 1974 era appena il 25 per cento), una buona metà di questa massa, il 44,1, alterna abbondantemente l’italiano al dialetto. E ciò, sottolinea De Mauro, non è affatto negativo.
Da poco è uscito il suo nuovo libro Storia linguistica dell’Italia repubblicana ( Laterza) che fin dal titolo aggiorna la Storia linguistica dell’Italia unita, pubblicato nel 1963, una storia linguistica e non storia della lingua.
Che cos’è una storia linguistica?
“È la storia di una comunità che può anche parlare diverse lingue. Tanto più di una comunità come quella italiana dove, a differenza di altri paesi, c’è un marcato multilinguismo. È la masse parlante di cui scrive Ferdinand de Saussure”.
Lei afferma che chi diagnosticava la morte dei dialetti ha dovuto ricredersi.
“Posso inondarla di cifre? Fino al 1974 la maggioranza degli italiani, il 51,3 per cento, parlava sempre in dialetto. Ora chi parla sempre in dialetto è sceso al 5,4. È vero che i toscani, i liguri e gli emiliano-romagnoli parlano solo in italiano fra l’80 e il 60 per cento e che i lucani, i campani e i calabresi vanno dal 27 al 20 per cento. Ma è vero anche che chi usa solo il dialetto in queste regioni del Sud non supera il 12-13 per cento”.
Lei sostiene che l’acquisizione dell’italiano comune sia stata favorita dalla mescolanza di tanti idiomi.
“Quante più lingue si confrontano tanto più cresce l’esigenza di una lingua comune. L’importante è che l’ambiente sia unitario. È un fenomeno verificabile fin dal Cinquecento a Roma, per esempio, dove affluiscono popolazioni da molte regioni dopo il sacco dei lanzichenecchi. La classe dirigente, cioè la curia, era pan-italiana”.
Le donne convergono verso l’italiano prima e più degli uomini.
“Questo accade sia nei contesti familiari, dove le donne rivolgendosi ai bambini prediligono l’italiano, sia fuori da quest’ambiente: lo attestano i dati sulla lettura o quelli sui rendimenti scolastici”.
E oltre al multilinguismo cos’è che ha diffuso l’italiano?
“Sono tanti i fattori: l’emigrazione interna, l’affluenza nelle grandi città, radio e televisione. Ma va sottolineato l’alto livello di scolarizzazione che ha portato al diploma secondario il 75 per cento dei ragazzi. Purtroppo questa richiesta di più alta formazione si è arrestata negli ultimi anni “.
In che senso?
“Il numero dei laureati in Italia resta basso rispetto alla media europea e ormai si diffonde la sfiduciata convinzione che una laurea serva a poco, perché molte imprese sembra non abbiano bisogno di alti livelli d’istruzione”.
E invece la scuola resta essenziale in questo processo.
“L’italiano ha un congegno più complicato dell’inglese o del francese, richiede un controllo che la scuola può offrire. Ancora oggi una consapevolezza piena la si acquisisce alle superiori, sperando che queste funzionino bene “.